Nomi a dominio e norme in materia di proprietà industriale

L’orientamento della giurisprudenza nei casi di illeciti relativi alle problematiche riscontrate a proposito di ‘domain name’.

Un nome a dominio o più semplicemente ‘dominio’, che in gergo informatico corrisponde al ‘domain name’, si definisce sinteticamente come un nome, associato a un indirizzo IP su Internet, facile da ricordare.

Dal punto di vista tecnologico, ciascun computer connesso alla rete può essere identificato mediante un numero di protocollo IP costituito da quattro serie di numeri in notazione decimale, al quale, mediante il Domain Name System (DNS), viene associato il nome a dominio. Ogni sito web può dunque essere individuato sia da un numero – IP – che da un nome, ovvero il nome a dominio.

Il domino nello specifico consta di tre elementi, cioè, il prefisso – www – che caratterizza ogni sito internet e lo identifica come tale; il Second Level Domain (SLD), che è la parte centrale del domino, ed è a questo attribuita la reale capacità distintiva; il Top Level Domain (TLD), che corrisponde a una specifica sigla che può indicare l’ambito territoriale ove è avvenuta la registrazione – Country Code Top Level Domain (ccTLD) – per esempio .it, .fr, .us, oppure può identificare la tipologia di attività svolta dal soggetto che ha chiesto la registrazione (Generic Top Level Domain, gTLD); per esempio .com, .net, .org. Nel caso in cui si faccia riferimento in modo generico al termine domino, questo si riferisce al Second Level Domain.

Ciascun nome a dominio deve essere registrato mediante un’apposita procedura, che differisce nel caso in cui si scelga di adottare un ccTLD, per il quale sarà competente l’autorità nazionale, oppure un gTLD, il quale sarà di competenza internazionale. L’assegnazione dei nomi a dominio segue, in ogni caso, la regola del first come first served, ovvero l’ordine cronologico delle richieste – criterio di priorità temporale – e il principio di unicità del nome a dominio, in quanto, una volta assegnato un nome a dominio, nessun’altro potrà usufruirne.

Il punto di vista giuridico

Oltre a essere uno strumento tecnico di indirizzo del web, da un punto di vista giuridico, un nome a dominio si caratterizza come segno distintivo che identifica e contraddistingue il sito Internet. Ha dunque una duplice funzione, da un lato, è un vero e proprio indirizzo elettronico, che permette all’utente di accedere al sito dallo stesso dominio contrassegnato, e, dall’altro, si caratterizza come vero e proprio segno distintivo.

Inizialmente, la giurisprudenza di merito, al fine di accordare tutela al nome a dominio, aveva applicato le norme sul diritto d’autore, non era riconosciuta, al nome a domino, la natura giuridica del segno distintivo, non ritenendo, dunque, che identificasse il soggetto utilizzatore, ma lo reputava un semplice indirizzo elettronico o telematico, volto a consentire all’utente l’accesso al sito e privo di qualsiasi efficacia distintiva.

In Italia, il legislatore, con il D. Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, Codice della Proprietà industriale, ha sancito, mediante il principio di unitarietà dei segni distintivi, l’equiparazione dei nomi a dominio ai segni distintivi (cfr. art 12, art. 22 c.p.i).

Secondo questa norma, quindi, non possono infatti costituire oggetto di registrazione, come marchio d’impresa, i segni che, alla data del deposito della domanda, siano identici o simili, oltre che agli altri segni già noti – come ditta, denominazione o ragione sociale e insegna – anche a un nome a dominio usato nell’attività economica, nell’ipotesi in cui, a causa della somiglianza tra i segni e i prodotti contraddistinti dagli stessi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che si può configurare anche come rischio di associazione.

La casistica degli usi illeciti e in malafede

Tra gli usi illeciti o in malafede di un nome a dominio possono definirsi, oltre che il domain grabbing, conosciuto anche come cybersquatting (occupazione abusiva di uno spazio virtuale), anche il linking, ovvero l’uso del marchio altrui come metatag.

Nel dettaglio, il domain grabbing (cybersquatting) si identifica come quella pratica che consiste nella registrazione come nome a dominio di segni distintivi o nomi altrui, generalmente celebri o rinomati; consiste quindi nell’occupazione abusiva dell’altrui marchio famoso, al fine di usarlo come proprio dominio su internet, appropriandosi, così, della notorietà del segno e ottenendo, grazie a questo atto, un ingiusto profitto.

Registrando abusivamente il nome a dominio corrispondente a un altrui marchio, noto, il cybersquatter impedisce di fatto al legittimo avente diritto di registrare il proprio nome a dominio, in quanto, per il principio del first come first served, risulterebbe tecnicamente impossibile; la giurisprudenza prevalente, tuttavia, ritiene preferibile non applicare tale principio.

L’Organizzazione mondiale per la proprietà industriale (WIPO), al fine di combattere il fenomeno del cybersquatting, ha introdotto, unitamente al ICANN, la procedura di riassegnazione ‘Mandatory Administrative Proceeding’ (MAP).

Un domino, alla luce di quanto sopra dunque, viene considerato abusivo, e di conseguenza, è possibile la sua riassegnazione all’avente diritto se sussistono, oltre la malafede del cybersquatter, i seguenti due presupposti. Il nome a dominio deve essere identico o confondibile con il marchio del ricorrente, il quale deve dimostrare di avere un diritto o un interesse legittimo sul nome a dominio oggetto di controversia.

Le tipologie di linking

Il linking è, invece, una pratica mediante la quale l’utente della pagina di un sito viene trasferito alla pagina di un altro sito di un diverso soggetto. Può figurarsi come surface-linking, deep linking e framing. Nel primo caso l’utente viene trasferito alla home page di un altro sito, nel caso del deep linking, invece, il link ipertestuale trasferisce l’utente direttamente a un’altra pagina, posta all’interno di un altro sito web, senza passare dalla home page, identificativa del sito stesso.

La giurisprudenza, in merito a questa pratica è divisa e le decisioni non sono univoche: da un lato la pratica viene considerata illecita, in quanto l’utente viene indotto a credere che il servizio sia offerto dal legittimo titolare del link, determinandosi così rischio di confusione tra i segni distintivi dei due siti, quello legittimo e quello verso il quale l’utente è inconsapevolmente trasferito (ciò costituendo) un atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’art 2598 del codice civile. Dall’altro, invece, in senso favorevole a questa pratica, si ritiene che non sussistano profili di illiceità o concorrenza sleale, nel caso in cui appaia chiaro, al visitatore, che ci si trova su di una pagina diversa da quella che si stava visitando.

Il framing, a differenza del deep-linking che crea un re-indirizzamento verso un’altra pagina, consiste nel far comparire direttamente all’interno di uno dei frame della pagina aperta dal visitatore una pagina di un altro sito.

Si ritiene che la pratica costituisca un utilizzo improprio dei link contenuti nelle pagine internet, che di fatto, permette di visualizzare i contenuti di un sito all’interno del frame di un altro, il cui fine è quello di sviare l’utente, cliente in alcuni casi, determinando, dunque, rischio di confusione. Per questo si considerano applicabili, analogamente a quanto avviene con il deep-linking, ai sensi dell’art 2598 del codice civile già citato, le norme in materia di illeciti concorrenziali.


Giuseppe Serafini

Avvocato del Foro di Perugia. BSI - ISO/IEC 27001:2013 Lead Auditor; Master Privacy Officer; perfezionato in Digital Forenscis, Cloud & Data Protection. Già docente di Informatica Giuridica presso la Scuola di Specializzazione in Professioni Legali di Perugia, L. Migliorini e collaboratore della cattedra di Informatica Giuridica della Facoltà di Giu...

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